
A Natale, in Campania, se c’è un piatto della tradizione che proprio non può mancare è quello con il baccalà. Fritto, in umido con olive, alla parmigiana, e come base di una straordinaria genovese con paccheri, il baccalà è solo in apparenza un cibo povero, quanto, piuttosto, un prodotto ad alto contenuto proteico, vitaminico, sali minerali che compare, sempre più spesso, anche in preparazioni più articolate.

Sembra strano, ma il baccalà vanta una lunga storia che dal Nord Europa, dall’Islanda, Norvegia e isole Lofoten, lo collega idealmente alle tradizioni gastronomiche dellItalia ed, in particolare, della Campania.
Le ragioni partono da lontano, quando in Campania, specie nella zona vesuviana, iniziarono le rotte commerciali col Nord Europa. Fu così che, come attestano i documenti dell’epoca, già nel 1500 si diffuse a Napoli il consumo del merluzzo, sia come baccalà (essiccato e conservato sotto sale), sia come stoccafisso, essiccato al vento.

A tanto si aggiunse anche il veto di mangiare carne nelle feste comandate, imposto dai dettami ecclesiastici dell’epoca. Fu grazie ai monaci, specie quelli del Santuario di Madonna dell’Arco (NA), che tra Sant’Anastasia e Somma furono create le prime vasche per la lavorazione e la dissalazione del merluzzo, per poi immetterlo in commercio come un prodotto fresco.
Nelle aree interne, come l’alta Irpinia e fino alla Valle di Diano, nel Cilento, il merluzzo salato costituiva l’unico prodotto di magro ed unica possibilità di mangiare pesce per le famiglie meno abbienti, specie nei giorni di Festa, come Natale.
Qui trovò facile diffusione grazie anche alla possibilità di facile conservazione, all’aria aperta (stoccafisso), più che sotto sale (baccalà), ed al suo abbinamento ai peperoni cruschi, una tipologia di peperone igp ricchissima di vitamine A e C, potenti antiossidanti, tipici di Senise, in provincia di Potenza.

Ancora oggi, la ricetta più famosa di queste terre è il “Baccalà alla pertecaregna”, un piatto semplicissimo che richiama usi e costumi dell’epoca contadina e deve, secondo alcuni, il suo nome alla “pertecara”, nome dialettale irpino dell’aratro usato nei campi. o, secondo altri, alla ‘perteca’ ovvero l’asta di legno posta sotto i balconi delle case rurali, su cui venivano appese, a mò di festoni colorati, le “nzerte” di peperoni cruschi essiccati, che, poi, si impiegavano per condire il baccalà.
Oggi, la zona vesuviana, nei dintorni di Napoli, è leader nel settore nonchè uno dei centri di commercio di baccalà di tutta l’Italia centro-meridionale. In particolare, la zona di Somma Vesuviana (NA), dopo quelle del Veneto e delle Marche, è la maggiore realtà produttiva del Mezzogiorno che già da anni investe in valorizzazione e promozione del baccalà, tanto da aver dato vita, su iniziativa dell’Ascom, ad un comitato ad hoc, il “Co.Ves”., che ogni anno coinvolge produttori, ristoratori e tantissimi turisti e golosi con la “Festa del baccalà”.
Carmen Guerriero