Un tuffo al cuore per l’emozione. È ciò che ho provato qualche settimana fa spalancando la porta dello Chalet Euthalia a San Giacomo, una frazione di Roburent, in provincia di Cuneo.
Poco più di 1.000 metri s.l.m. e poco meno di 250 anime. Arrivando a sera inoltrata si rimane impressionati da questa splendida, imponente e articolata costruzione in pietra e legno sapientemente illuminata in modo da creare fascinosi giochi di luce sulle colonne a sottolineare gli archi e i legni massicci; ma è oltrepassando l’ingresso ben evidenziato da antiche travi di legno intagliate con motivi e decori tradizionali che mi sono chiesto se avevo varcato la soglia del tempo: un ambiente accogliente e lussuoso, legni antichi alle pareti e sui pavimenti, divani e pouf rossi, ricchi tappeti, lampade e vetri di Murano e una spettacolare stufa in ceramica con gli stemmi delle provincie del Piemonte dipinti sulle piastrelle superiori.
Un raffinato locus amoenus di fine ‘800 con spiccato gusto francese che introduce nella ampia sala ristorante – anch’essa tutta in legno e con un’altra scenografica e rara stufa in ceramica finemente decorata – un salone arricchito da eleganti tende rosso cardinale che incorniciano le grandi vetrate, tavoli rotondi ben distanziati e comode sedie con braccioli in stile Luigi XV impreziosite da un setoso tessuto rosso “ton sur ton”, altri tappeti a predominanza rossa, colonne lignee scanalate a tutto tondo con capitelli in stile ionico e lesene che delimitano grandi specchiere e il soffitto a cassettoni decorati con teste d’angioletto e motivi floreali d’antan dipinti sul legno. Un vero spettacolo per gli occhi di un appassionato di arredamento d’epoca come me, quasi da farmi dimenticare di essere in uno chalet di montagna!
La mia ampia camera, “La Suite d’Alpeggio”, è al primo piano e arredata in modo insolito con oggetti recuperati da una vecchia stalla, compreso una greppia ricolma di profumato fieno che funge da testiera del letto, alcuni grandi campanacci agganciati ad una grossa trave, pareti con antichi attrezzi agricoli appesi – dai falcetti, alle roncole, ai collari in legno con campana per le capre – e un comodo divano di fronte ad un rustico camino, perfetto per rilassanti e romantici dopocena, tra una lettura e un calice di buon vino, quando magari fuori la neve scende lieve e silenziosa.
La struttura dispone di altre quattro camere dai nomi romantici ed evocativi: “La Piccolina”, intima e dal soffitto a botte; “La Due cuori”, uno scrigno con affaccio sulle Alpi; “Il Nido”, quadrata con tetto a padiglione, un rassicurante rifugio, e infine “La Grangia”, con accesso privato esterno ed un piccolo giardino ad uso esclusivo. Tutte arredate in stile rustico con pezzi provenienti dalle antiche abitazioni rurali della zona.
Ma l’emozione maggiore mi raggiunge a tavola, gustando la cucina di chef Galliano, fatta di materie prime di territorio, alta qualità a “metro” zero, fiori edibili, erbe spontanee e aromatiche – Gian Michele è un grande conoscitore e vero esperto nel loro utilizzo -, prodotti locali provenienti dal suo orto e da quelli dei piccoli fornitori vicini, pesci di torrente, margari e casari che forniscono carni, burro di montagna e formaggi d’alpeggio dal gusto sorprendente, quasi dimenticato da chi vive in città e ha il palato ormai standardizzato dai prodotti industriali.
Il mio primo incontro con Galliano risale a tre anni fa nel suo ristorante in quel di Vicoforte e con una filosofia di alta cucina ispirata a quella Kaiseki, stile culinario giapponese declinato in tanti piatti presentati in piccole porzioni. Fui già folgorato all’epoca e oggi la mia curiosità di verificarne l’evoluzione è tanta.
La ricca apertura che dà il via al percorso di degustazione completo “La Gita” – “Quattro passi” è invece il menù più breve – è dedicata alle verdure e ai legumi, con porzioni non più minimal ma più ricche: vinaigrette di funghi porcini con orzo, timo selvatico e nocciole; zucchina trombetta e il suo fiore in tempura; carotina cotta con burro e prezzemolo su crumble croccante; “capunet” della tradizione con cipolla di Tropea e un divertente “soffio di panino di frittata” in ricordo della storica rosetta con frittata di erbette spontanee che, tra gli anni ’30 e gli anni ’80, si acquistava alla stazione di Ceva nel percorso vacanziero del popolo torinese verso la vicina Liguria e che dal 2014 è tutelato dalla De.Co., la Denominazione Comunale d’origine.
Immancabile anche la classica e gustosissima carne cruda di Fassona battuta al coltello, accompagnata dalla tradizionale salsa di uovo, senape e polline. Semplicemente strepitosa in sapore e tenerezza.
Su una bella mattonella in ceramica smaltata craquelè mi viene servito un burro di malga di un bel colore giallo, da latte intero di mucche che pascolano nei prati e si nutrono di fiori ed erbe. Presentato sia in versione normale sia salata con una fetta di ottimo salame artigianale il suo leggero profumo di stalla in quel momento mi ha ricordato le vacanze che passavo da bambino nella campagna astigiana, il tepore degli umidi ricoveri per bovini nelle cascine, quando il latte si poteva bere appena munto, tiepido e rassicurante e in un angolo della stalla un timido vitellino malfermo sulle gambe iniziava la sua vita. La buona cucina serve anche a risvegliare ricordi ed emozioni, sensazioni uniche che gratificano e arricchiscono questa esperienza gastronomica, molto ben abbinata ad una carta dei vini di ottimo livello serviti con educato garbo d’altri tempi da Giuseppe Galliano, proprietario dello Chalet insieme al figlio Gian Michele.
La passione assoluta per l’alta gastronomia di Giuseppe lo porta a dedicare i momenti liberi dall’attività di imprenditore edile alla frequentazione dei più prestigiosi ristoranti stellati Michelin e trasmette questo suo innamoramento a Gian Michele: la naturale conseguenza, dopo ovviamente un suo importante percorso di formazione presso grandi chef stellati, italiani e francesi, è il “fiore che sboccia” – tale il significato della parola greca “Euthalia” – questo buen retiro immerso in un parco di 9000 metri quadrati, un giardino alpino, piantumato a faggi, castagni, ciliegi, meli, tigli e betulle e con un angolo dedicato ad uno degli aspetti più importanti della cucina di Galliano, l’orto. Cento metri quadrati con più di cinquanta specie diverse di erbe e spezie, da quelle più comuni e conosciute, come il finocchietto selvatico, la senape, l’origano, ad altre decisamente più territoriali e inconsuete come la silene, il rumex, il levistico oltre ad alcune varietà di fiori edibili: l’elemento vegetale riveste infatti un ruolo troppo importante nelle ricette dello chef.
La passeggiata prosegue con un delicato salmerino affumicato e levistico che precede il piatto icona di Gian Michele, ”Il Bosco”.
Chef Galliano spiega: “Nella mia cucina si respira il bosco. Attraverso i miei piatti cucino un territorio: la montagna, luogo dove sono nato e cresciuto e che mi ha insegnato a saper ascoltare e a saper osservare”.
Mi addentro con curiosità in questo percorso silvano. Servito all’interno di una corteccia, è come se la natura stessa offrisse gli ingredienti con i quali è composto: lumache, funghi, licheni, erbe spontanee intense e profumate, aglio orsino, una piccola quenelle di gelato alle mandorle, chips di riso e una schiuma in estrazione dalla terra che si recupera in fase di raccolta dei funghi.
Mi viene da chiudere gli occhi per immergermi ancor di più nel bosco balsamico, l’odore leggermente terroso fa immaginare davvero una camminata sul terreno umido alla ricerca di quei funghi che sto masticando lentamente per prolungarne il piacere gustativo.
Terminata questa singolare escursione nel sottobosco, le lumache tornano nuovamente protagoniste come stuzzicante ripieno di una pasta arrotolata come un mini cannellone, con erbe e fiori ad arricchirne il sapore.
La Gita continua, sempre con tema bucolico, con un risotto alla Robiola di Roccaverano con una particolare miscela di spezie locali che ricordano il curry, sedano, levistico e buccia di limone a dare una sferzata di freschezza, altro piatto entusiasmante.
Sempre nelle originali stoviglie ideate da Galliano e realizzate con materiali naturali da artigiani locali, vengono poi presentati uno squisito trancio di salmerino, giuncà (ricotta d’alpeggio di latte ovino), limone e cumino di montagna, accompagnato da una purea di melanzana con curry indiano e mentuccia seguito da un tenerissimo e gustoso taglio di costata di Fassona alla brace.
“La boca non xe straca fin che non la sa de vaca”, recita un famoso proverbio veneto. E infatti, su un vassoio di legno arrivano dei formaggi da sogno, intensi, gustosi, ricchi in sapore. Anche in questo caso, l’accurata scelta dei fornitori è premiante.
E col pre-dessert, un sorbetto al fieno abbinato a una tisana alle erbe e fieno, inizia la girandola del “gran dessert” culminata con una golosa creme brulée di grande soddisfazione a terminare una “gita” che mi ha lasciato un meraviglioso ricordo e il desiderio, appena possibile, di ripetere questa emozionante esperienza.
Naturalità, territorialità e sostenibilità, questo il credo di chef Galliano, che rende lieve un intenso percorso di gusti e sapori che hanno nella stagionalità la componente vincente: la croccantezza dei vegetali appena raccolti o i profumi del burro freschissimo, che fino al giorno prima era latte, o ancora la qualità delle carni di animali nutriti in alpeggio con erbe e fiori che donano sfumature gustative uniche.
Tutto ciò, unito alla grande conoscenza delle erbe spontanee e del loro sapiente utilizzo, applicate all’eleganza e alla purezza della sua cucina renderanno indimenticabile la sosta in questa struttura da sogno in un luogo fiabesco ai confini del bosco.
Paolo Alciati