Per immergersi nella storia della Nuova Zelanda basta solo un biglietto aereo e tanta voglia di scoprire i luoghi simbolo del Paese
Se la fine di un viaggio non è altro che “l’inizio si un altro, ed è necessario ricominciare viaggiare. “Sempre”. Come scriveva José Saramago nel “Viaggio in Portogallo”. Sono un esempio di ciò che il Nobel portoghese della letteratura intendeva, sia come movimento verso un luogo, sia dentro sé stessi. Per immergersi nella storia della Nuova Zelanda basta solo un biglietto aereo e tanta voglia di scoprire i luoghi simbolo del Paese. In pieno Oceano Pacifico del sud, sotto un cielo dove l’astronomia sta a testa in giù, la Nuova Zelanda, un Paese di due isole grande come l’Italia, ospita vulcani che ogni tanto esplodono, distruggendo i paesi e seminando il panico.
Ma per lo più tranquillamente, il magma si limita a scaldare l’acqua e a fornire energia a buon mercato per le case e le industrie dei quasi cinque milioni di neozelandesi che vivono nella patria dei maori. Aotearoa è il nome “maori” della Nuova Zelanda, battezzata ben prima che i colonizzatori europei giungessero sulle rive ventose del verde diviso in due isole (North e South), adagiato nel Mar di Tasman, il blocco di terra emersa più distante dall’Europa. Oltre solo le stelle. Lembo di terra isolato, distante da tutto, luogo ideale per fare maggese dentro di sé, per resettare l’anima, in fuga dal caos della quotidianità ad alta densità abitativa nelle nostre lande domestiche. 28 ore di volo (in direzione occidente oppure oriente, dall’Italia non fa differenza) e si atterra agli antipodi, fuggendo dall’inverno e conquistando l’estate australe.
Che in Nuova Zelanda assume sapori speciali: fresca, sognante, oceanica. Vestigia vulcaniche che attraversano la terra: la North Island è la massa di terra che costituisce il lembo settentrionale della Nuova Zelanda. Il suo scheletro è retto da una colonna vertebrale di fuoco che si esprime attraverso colossali vulcani, pozze di fango ribollenti, geyser. Una cintura del fuoco che costituisce l’essenza stessa dell’isola. In cui vive anche ampia parte della popolazione maori, comunità che conserva con cura le proprie tradizioni e i propri rituali originari. Dai 3 vulcani che definiscono il panorama straordinario del Tongariro National Park (“set” reale che ha dato forma alle fantasie tolkieniane nella saga cinematografica del Signore degli Anelli, firmata Peter Jackson) ai fenomeni geotermici di Rotorua, fino al campo vulcanico su cui è edificata la magnifica Auckland, la città più popolosa del Paese adagiata su coni di vulcani dormienti che si inabissano nelle acque azzurre del Golfo di Hauraki, campo di regata e di battaglia di passate sfide di America’s Cup.
Non esiste una graduatoria che allinei i Paesi per grado di civiltà. Non può esistere, naturalmente, nemmeno in un mondo di ansie classificatorie come il nostro: perché il concetto è sfuggente, indefinibile. Eppure, se ci fosse, la Nuova Zelanda competerebbe a buon diritto per i primi posti. Lo testimoniano tanti piccoli segnali che si possono cogliere nell’atmosfera quotidiana. Il rispetto, per le regole non scritte. Il garbo, nei rapporti tra le persone. I sentieri naturalistici, non importa quanto remoti, immancabilmente accessibili ai disabili. Il rispetto per la natura, che laggiù domina sull’uomo, poco più che pioniere soprattutto nell’Isola del Sud. La Nuova Zelanda, grande più o meno come l’Italia, ha poco più di quattro milioni di abitanti, come la Croazia o l’Irlanda: pochi, e inoltre concentrati nella più calda Isola del Nord dove sorgono Auckland, la “metropoli” neozelandese e la capitale Wellington. L’Isola del Sud, che occupa metà della superficie del Paese, ha invece da poco festeggiato il suo primo milione di abitanti, che quindi si ritrovano dispersi in un ambiente naturale vasto, imprevedibile e di sorprendente bellezza. Il paesaggio è dominato dalla catena delle Alpi meridionali, in tutto simili a quelle europee: la forma dei rilievi, i solchi delle vallate, gli allungati laghi glaciali, i colli delle Prealpi rimandano immediatamente alle immagini consuete da quest’altra parte del mondo; solo, laggiù si conservano intatte, non trasformate e plasmate dalla millenaria mano dell’uomo.
I neozelandesi sono tutti appena arrivati, sia i maori di ceppo polinesiano, sbarcati nel Duecento, sia i discendenti degli inglesi, giunti nel Settecento. Entrambi i gruppi sono cittadini fin dalla nascita dello Stato come dipendenza britannica, formalizzata dal trattato di Watangi nel 1840. Fin da allora gli inglesi riconobbero i diritti di proprietà dei maori; nei decenni seguenti non mancarono certo abusi, forzature e anche scontri armati tra i due gruppi etnici, ma le tensioni non andarono mai al di là di un certo segno, e oggi tutti antepongono a ogni altra identità quella peculiare neozelandese: kiwi – dal nome dell’uccello simbolo del Paese – è il nomignolo nel quale tutti si riconoscono. I maori, circa il quindici per cento dei neozelandesi, coincidono ancora in gran parte con la fascia più debole della popolazione: ma di un’etnia eccezionalmente equilibrata. Il divario tra i più ricchi e i più poveri è contenuto, l’indice di sviluppo umano è altissimo – il terzo nel mondo nel 2013 – anche se il Pil pro-capite è di circa diciannovemila euro annui, inferiore a quello italiano (quasi ventunomila, sempre nel 2013). Per contro, la Nuova Zelanda è al primo posto nella particolare graduatoria che misura la corruzione; sostanzialmente, non c’è. Wellington, la capitale, placida ed elegante, sorge all’interno di un antico cratere vulcanico, riempito dalle acque del mare, situata all’estremità meridionale dell’Isola del Nord. I villini dove risiede gran parte della popolazione punteggiano il verde dei colli digradanti verso il centro storico – si fa per dire: gli edifici più antichi sono quelli di foggia inglese, sorti a fine Ottocento – e il porto, dal quale i traghetti partono per affrontare il turbolento Stretto di Cook che divide le due isole. In quella del Sud la dorsale alpina, che si eleva a ridosso della costa occidentale, s’incontra con il mare in un susseguirsi di baie, insenature e fiordi, che non hanno nulla da invidiare ai più celebri norvegesi: centinaia di metri di roccia si buttano a picco nelle fredde acque australi, popolate di pinguini e foche orsine. Le nevi perenni e i ghiacciai scendono fino a poche centinaia di metri di altitudine al livello del mare; la Nuova Zelanda si trova alla stessa latitudine dell’Italia – ovviamente ribaltata –, ma non beneficia della Corrente del Golfo che riscalda l’Europa.
E quindi ha un clima più freddo e, soprattutto, più piovoso della sua controparte boreale. Questa caratteristica, combinata con l’isolamento ininterrotto da ere geologiche, ha generato un panorama ambientale unico. Non esistono mammiferi terrestri, salvo quelli importati dall’uomo negli ultimi secoli, e ovunque sorge la foresta pluviale. Una strana foresta: apparentemente alpina, se vista da lontano; simile al contrario alle giungle tropicali, se osservata più da vicino. Ma una giungla fredda, con le palme adattate al clima, grazie alle foglie sfrangiate, le conifere dagli aghi sottili e aguzzi, i rampicanti e le felci – altro simbolo della Nuova Zelanda –. E ovunque, spessa e soffice la coltre, il muschio che ricopre ogni cosa: terreno, rocce, tronchi, rami, foglie. Infatti, è qui che il regista kiwi Peter Jackson, ha trovato la Terra di Mezzo evocata da Tolkien, immortalano le immagini nella trilogia “Il signore degli anelli”. Nella stretta fascia costiera occidentale gli insediamenti umani sono ancor più radi e conservano un che di provvisorio, pionieristico, e possono scorrere centinaia di chilometri tra uno e l’altro. I collegamenti con la sponda orientale passano attraverso due passi che si aprono al culmine di valli nebbiose e deserte, appena superata la cresta il paesaggio improvvisamente s’illumina, e degrada dolcemente in colline via via più arrotondate, sulle quali brucano in stato semi-brado pecore, mucche e cervi, le tre razze che costituiscono l’ossatura dell’allevamento neozelandese.
L’altro caposaldo dell’economia dell’Isola del Sud è la vite, coltivata nelle regioni più riparate e impiegata per produrre Sauvignon e Pinot di ottima qualità. In fondo alla piana, sempre ondulata, le piccole città – la remota Invercargill, l’eccentrica Dunedin, la martoriata Christchurch –; nel mezzo, la campagna punteggiata di fattorie dove ogni famiglia vive quasi in autarchia, eppure parlando un impeccabile inglese oxfordiano e rimuginando la propria nostalgia dell’Europa. Ogni casa ha almeno una stanza per i viaggiatori di passaggio, accolti con un bicchiere di vino e il rito vittoriano del tè, imprescindibile appuntamento con i vicini ma anche con gli ospiti – e non importa se conosciuti o no. Per uscire però dalle tratte turistiche, uno dei tracciati che ho preferito è la Copland Track, a poca distanza da Fox Glacier, che richiede due giorni, e lungo un percorso poco battuto, passano fiumi, torrenti, risalendo il fianco di una montagna fino a delle piscine termali naturali.
La Nuova Zelanda è un paese di cui si parla sempre poco, un po’ all’ombra della vicina Australia, che proprio per questo motivo riesce a sorprendere chi arrivi senza meta. Andando oltre i paesaggi e la natura per cui i più la raggiungono, la Nuova Zelanda è a mio parere un luogo che ha bisogno di tempo per essere conosciuto. I suoi ritmi lenti e lo stile vita che caratterizzano questa popolazione sono qualcosa a cui è necessario abituarsi e apprezzare con il tempo. Della Nuova Zelanda non scorderò mai il profumo dei fiori e della fitta vegetazione, detta “bush”, la cordialità e la disponibilità dei suoi abitanti, la musica creata dalle numerose specie di uccelli, le nuvole che disegnano sempre dei cieli meravigliosi e la variabilità del meteo, non a caso un detto tipico è” four season in one day”.
Jimmy Pessina
Foto di Jimmy Pessina e Tourism New Zeland