
Bonvesin de la Riva deve la sua notorietà al fatto che Gualtiero Marchesi aprì il suo ristorante nella via che Milano ha dedicato al cronista milanese ( 1240-1314), frate Umiliato autore di prose e poesie in latino e in volgare che la storia ha ignorato riservando attenzione ad altre opere che hanno trattato argomenti analoghi. il trattato “ de quinquaginta curialitatibus ad mensam” : le cinquanta cortesie da tavola è stato sommerso dal Galateo scritto duecentosettanta anni dopo. La sua opera più importante, espressione del suo orgoglio di cittadino milanese, resta “De magnalibus urbis Mediolani”, che offre un interessante quadro della vita di Milano nel Trecento. Una città che contava più di duecentomila uomini in grado di combattere, escludendo, monaci e chierici. (3-II) “secondo i miei calcoli, confermati dalle assicurazioni di molti, più di settecentomila bocche umane di ambo i sessi vivono sulla superficie della terra ambrosiana e ricevono ogni giorno dalla mano di Dio alimenti ambrosiani.”(3-XII).“ le vigne numerose producono svariati generi, sia dolci sia aspri, di vini salubri, saporiti, chiari, di colore bianco, giallo,roseo e dorato in tanta abbondanza che certe famiglie raccolgono ogni anno dalle proprie vigne, al tempo della vendemmia, più di mille carri di vino, altre più di cinquecento, altre più di cento. Sembrerà forse stupefacente anche questa affermazione: che nel contado di Milano più di seicentomila carri di vino, nelle annate buone vengano messi in botte, come assicurano quanti hanno fatto diligenti indagini e dichiarano di poter offrire valutazioni esatte.”(4-VII) (Due botti per vino costituivano un carro (di vino); ogni botte era della capacità di 28,556 palmi cubici pari a 0,52346 metri cubi (= 523,460 decimetri cubi = 523,46 litri).
In considerazione dello stato delle strade medievali e della situazione dei trasporti sarebbe impensabile che i vini arrivassero a Milano da molto lontano: quindi di deve considerare una forte produzione locale, dai vigneti urbani a quelli a breve distanza su zone collinari dove la vite trova il suo habitat ideale. Tra la città e i primi rilievi alpini si stendono pigramente i colli che i Celti chiamavano brig: termine che ha dato il nome alla Brianza.È difficile determinare dove inizia e dove finisce la Brianza, dato che non esistono dei veri e propri confini che la delimitano; lo stesso Cesare Cantù, storico e letterato ottocentesco originario di questi luoghi, scriveva: “Brianza è denominazione piuttosto indeterminata della quale non si conoscono i limiti” . La definizione popolare dei suoi confini vuole che inizi lì dove Milano finisce e si estenda fino a lambire le sponde del Lago di Como e le Prealpi a Nord, il fiume Adda e la provincia di Bergamo ad Est, il fiume Seveso e la provincia di Varese ad Ovest.
I vini brianzoli
La viticoltura sui colli brianzoli ha origini molto antiche; se ne trovano numerosi riferimenti sia nei testi romani che nel corso del Medio Evo e dell’età moderna. Per secoli questi territori hanno prodotto vini (considerati leggeri e rinfrescanti), sia per l’autoconsumo locale che per il mercato, soprattutto di Milano. Il declino della viticoltura, è stato segnato da diversi fattori: da un lato la comparsa di nuove malattie e parassiti (in particolare la fillossera e la peronospora) che hanno falcidiato i vigneti, prima che si trovassero efficaci rimedi; dall’altra l’affermarsi, in alternativa alla vite, della coltura del gelso per l’allevamento dei bachi da seta; infine il diffondersi dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione di gran parte del territorio. Prima della sciagurata devastazione provocata dalla Fillossera nel 1870 la produzione arrivò a 48 mila ettolitri, ricavati da vitigni oggi caduti nell’oblio: boutascera, inzaga, corbera, guernazza. Sostegno naturale della vite, nella cosiddetta “vite maritata”, era il gelso, diffusissimo nelle campagne brianzole dove costituì la base di alimentazione del baco per la produzione della seta:una tradizione che ancora oggi rappresenta un segno del gusto italiano nel mondo e che risale al 1442, quando arrivarono alla corte di Filippo Maria Visconti, due «setajoli» da Firenze e da Genova per incrementare la lavorazione della seta.

Sul vino della Brianza sono fiorite molte testimonianze letterarie e poetiche:

Teodolinda, regina dei Longobardi e regina d’Italia dal 589 a 616, scelse Monza come residenza estiva. L’illuminata regina Teodolinda pose rimedio alla sciagurata disposizione imposta dai Longobardi agli Insubri di spiantare le viti per incrementare il consumo di birra. Teodolinda aveva deciso di prendere come suo sposo Agilulfo duca di Torino che di avviò, con il suo corteo alla volta della reggia di Monza ; quando i due cortei si incontrarono , la regina salutò il duca, poi secondo l’antico uso, gli offrì da bere in una preziosa tazza di zaffiro dalla quale il duca bevve avidamente assumendo una strana espressione di sorpresa ; la regina sorrideva tranquilla ben sapendo cosa aveva provocato lo stupore del suo sposo. Quello che aveva appena bevuto non era la cervogia degli antichi padri longobardi ma dell’ottimo vino brianzolo. Ad Agilulfo il vino piacque così tanto che lo volle alla tavola regia il giorno delle nozze. Così i brianzoli, grazie alla fiducia riposta nella loro regina, videro trionfare il loro vino sulla birra longobarda.
Lo scrittore rinascimentale Ortensio Lando, nato a Milano attorno al 1512, scrisse delle recondite qualità del vino brianzolo, che sarebbe servito ad incantar la nebbia:
” … Non cavalcar la vernata per Lombardia,
se prima non incanti la nebbia et questo sia l’incantesimo:
piglia una tazza piena di «moscatello briancesco» e dirai tre fiate:
Nebbia, nebbia mattutina
Che ti levi la mattina,
Questa tazza rasa e piena
Contro te fia medicina.”
Carlo Maria Maggi (Milano 1630-1699) scrittore e commediografo italiano è considerato il padre della letteratura milanese moderna, nonché creatore della maschera di Meneghino che, nella commedia ”Il Barone di Birbanza” loda il vino di Montarobbio che beve all’osteria del Gallo intorno al Cordusio di Milano.
Nel 17
11 don Basilio Bertucci, milanese, pubblica un gustoso ditirambo «del vino di Arobio (Monterobbio di Robbiate LC) in cui, in un vortice di brindisi, descrive e loda numerosi vini di Brianza:
11 don Basilio Bertucci, milanese, pubblica un gustoso ditirambo «del vino di Arobio (Monterobbio di Robbiate LC) in cui, in un vortice di brindisi, descrive e loda numerosi vini di Brianza:
Qui producon le beate viti a l’human palato Ambrosia si soave, che giurare ardirei,
che non invidia al nettare de gli Dei
… D’Arobio indi spumante un colmo bellicone egli imbandì ….
Mi beverò d’Arobio colmo questo grande e smisurato bellicone
de campioni d’Europa a la salute»
(Bellicone era un grosso bicchiere panciuto nel quale si brindava alla salute di chi era appena arrivato a tavola)
Vino di Montarobbio apprezzato anche da Carlo Porta nel suo Brindes de Meneghin a l’osteria del 1810
L’è peccaa che el Montarobbi
nol sia on mont largb milla mia; chè in d’on quai cantonscellin
ghe sarav forsi cà núa. Ma l’è on mont tant piscinn
che tanc voeult quell pocch penser de scuffiaghen on biccer
boeugna proppi guarnall via. Ma che serva? la natur
per i coss prezos e car l’ha tegnuu curt la mesura,
giust per rendi pusse rar. Hn i perla, hin i diamant
piscinitt, e hin olter tant gross i anguri, gross i zucch.
E’ peccato che il Montarobio non sia un monte largo mille miglia; ché in un qualche cantuccino ci sarebbe forse casa mia. Ma è un monte tanto piccolino che tante volte quel poco pensiero di tracannargliene un bicchiere bisogna proprio metterlo via. Ma che serve? la natura per le cose preziose e care ha tenuta corta la misura, giusto per renderle piú rare. Sono le perle, sono i diamanti piccolini, e sono invece grosse le angurie, grosse. le zucche .
Nella mappa del Catasto Teresiano del 1721, si contavano sul Monterobbio 313 pertiche a vigna, contro le 109 a bosco.
Ferventi estimatori dei vini brianzoli sono stati Alessandro Manzoni e Carlo Porta che li cita nei due brindisi scritti in occasione delle nozze di Napoleone I nel 1810 e dell’ingresso a Milano di Francesco I nel 1815.
Il Porta si entusiasmò per Napoleone il cui avvento sembrava suggerire le più rosee speranze per il futuro dell’Italia e, in occasione delle sue nozze con Maria Luisa d’Austria, celebrate a Parigi nell’aprile del 1810, scrisse il “Brindes de Meneghin a l’ostaria. Ditiramb per el matrimoni de S.M. l’Imperator Napoleon con Maria Luisa I.R. Arziduchessa d’Austria” dove cita molti vigneti che allignavano nella fascia che coronava Milano sullo sfondo delle Prealpi dall’Adda al Sesia. Il componimento è uno dei rari esempi di ditirambo in milanese che si ripete qualche anno dopo con “Brindes de Meneghin a l’ostaria per l’entrada a Milan de Sova S.C. Maistaa I.R.A. Franzesch Primm in compagnia de sova miee l’Imperatriz Maria Luvisa“.

Che Toccaj, che Alicant, che Sciampagn,/ che pacciugh, che mes’ciozz foréster!
Vin nostran, vin di noster campagn,/ma legittem, ma s’cett, ma sinzer,
per el stomegh d’on bon Milanes/ ghe va robba del noster paes.
Che Tocai, che Alicante, che Champagne, che intrugli, che misture forestiere! Vino nostrano; vino delle nostre campagne, ma legittimo, ma schietto, ma sincero, per lo stomaco d’un buon Milanese ci va roba del nostro paese.
Il Porta disprezza i vini dell’impero austro ungarico, di Spagna e di Francia,con un chiaro riferimento alle tre nazioni che ambivano al dominio della Lombardia che da sola pagava imposte onerose e di valore molto più alto di qualunque altra regione. Meglio dunque vini nostrani, nel senso di avere governatori lombardi a comandare in terra lombarda.
Nun che paccem del bell e del bon,/ ior de manz, de vedij, de cappon,
fior de pan, de formaj, de butter,/ no emm besogn de fà el cunt coj biccer,
e per quest la gran mader natura/ la s’è tolta la santa premura
de vojann giò de bev col boccaa/ fior de scabbi passant e salaa,
fior de scabbi mostos e suttir/ di nost vign, di nost ronch, di nost fir.
Vin nostran, vin nostran, torni a dì,/ de trincà col coeur largh e a memoria,
chè di vin forestoe la gran boria/ per el pù la va tutta a fornì
in d’on pod, fumm e scumma, e bott .
Noi che pacchiamo ( mangiamo di gusto) del bello e del buono, fior di manzi, di vitelli, di capponi, fior di pane, di formaggio, di burro, non abbiamo bisogno di fare il conto coi bicchieri (bevuti), e per questo la gran madre natura si è presa la santa premura di vuotarci giú da bere col boccale fior di vino delicato e frizzante, fior di vino pastoso e sottile delle nostre vigne, delle nostre viti di collina, dei nostri filari. Vino nostrano, vino nostrano, torno a dire, da trincare col cuore largo e a memoria, ché dei vini forestieri la gran boria per lo piú va tutta a finire in un puff, fumo e schiuma e alto lí.
El san ben Buragh, Tradaa,/ Montaveggia, Oren, Maggenta,
Canegraa,Busser, Masaa,/ Pilastrell- Scioccon, Groppl,
quanci lacrem, quanc sospir,/ quanci affan, quanci dolor
m’hin costaa quij so ei fir, / quij so toppi, quij vidor
Lo sanno bene Burago, Tradate, Montevecchia, Oreno, Magenta, Canegrate, Bussero, Masate, Pilastrello-Cioccone, Groppello; quante lacrime, quanti sospiri, quanti affanni, quanti dolori mi sono costati quei loro filari, quei loro pergolati, quei vigneti.

Nell’edizione del 1817 dell’unico esempio di poesia ditirambica in lingua milanese, il “ brindisi “ era preceduto d
alla nota al lettore redatta da Francesco Cherubini, direttore della Imperial Regia Scuola di Milano e cultore dei dialettti,che annotava: “crediamo bene di avvertire che sotto l’allegoria de’ diversi vini de’ quali è fatta parola in questo brindisi s’adombrano i più distinti fra i nostri concittadini i cui poderi primeggiano in quei luoghi ove raccolgonsi i vini medesimi “ Al di là dell’occasione contingente, questo componimento vuole essere un nuovo inno a quella pace tanto desiderata e di volta in volta invocata all’uno o all’altro dominatore, con un invito alle famiglie nobili lombarde affinché partecipino attivamente al buon governo della loro Terra.
alla nota al lettore redatta da Francesco Cherubini, direttore della Imperial Regia Scuola di Milano e cultore dei dialettti,che annotava: “crediamo bene di avvertire che sotto l’allegoria de’ diversi vini de’ quali è fatta parola in questo brindisi s’adombrano i più distinti fra i nostri concittadini i cui poderi primeggiano in quei luoghi ove raccolgonsi i vini medesimi “ Al di là dell’occasione contingente, questo componimento vuole essere un nuovo inno a quella pace tanto desiderata e di volta in volta invocata all’uno o all’altro dominatore, con un invito alle famiglie nobili lombarde affinché partecipino attivamente al buon governo della loro Terra.
In entrambi i componimenti il Porta cita molte località dove si producevano buoni vini che subirono la calamità della filossera dal periodo dal 1860 al 1870, quando sembrò che l’intero patrimonio viticolo europeo dovesse scomparire se non tosse intervenuta una tecnica di impianto radicale su ceppi americani insensibili al parassita che salvarono le viti lasciando, però, il dubbio della qualità. Infatti non potremmo stabilire esattamente se i vini attuali abbiano le medesime caratteristiche organolettiche dei vini antichi, in quanto il gusto è una sensazione effimera che rimane nella memoria sensoriale propria di ciascun individuo, che la interpreta a suo modo senza lasciare una testimonianza durevole e registrata con mezzi tecnici come avviene per la vista e per l’udito. Permane dunque il dubbio se i nostri vini siano gli stessi con cui brindava il Meneghino portiano oppure siano cambiati tutti in modo tanto uniforme da non lasciarci alcun termine di paragone che ci consenta di esprimere un giudizio comparato e, in questo caso, i posteri non possono dare “l’ardua sentenza”.

Per far luce su questo amletico dubbio abbiamo chiesto lumi ad Alfredo Ratti, artefice con Moritz Mantero,Arturo Croci e Valter Pironi di Orticolario, la più bella rassegna dedicata al florovivaismo, che ospita nel pergolato di Dioniso con oltre 100 tralci di viti esemplari ,simbolo della divinità greca. Con parole semplici di chi è padrone della materia che conosce, Ratti ha rilasciato la sua ultima intervista pochi giorni prima di raggiungere il grande convivio, confermando che l’innesto delle barbatelle europee su porta innesto americano non è intervenuto sulla qualità del vino. La vite europea non è atavicamente resistente alla fillossera che ne distrugge le radici provocandone la morte; anche quella americana viene attaccata dalla fillossera, ma siccome vi convive da sempre, ha sviluppato una resistenza: è per questo che la vite europea, di per se più robusta e longeva, va innestata su ceppo “americano. Bisogna comunque distinguere due possibilità:se la piantana è di specie americana, è soggetta alla fillossera ma ha una certa resistenza;se invece è di origine europea, l’attacco è in genere letale, proprio perché questa specie non ha acquisito negli anni alcun tipo di resistenza a questo parassita. Diverso sarebbe se si usasse la tecnica di innestare sulle cellule europee, i geni che danno la resistenza alle viti americane nei riguardi della fillossera una tesi avvalorata anche da Mario Fregoni che scrive: L’avvento della fillossera (insetto che attacca le radici) ha cambiato la nostra vite, che prima viveva su radici proprie mentre ora possiede radici americane. La vite è bimembre, vale a dire è composta da due individui (uno di Vinifera ed uno di ibridi di viti americane, il portinnesto). Di per sé si tratta già di un OGM. Ma sorvoliamo. Quando sono state individuate le viti americane resistenti alla fillossera vi furono molti avversari alla loro introduzione in Europa per paura che modificassero la qualità del vino. Addirittura la Francia approvò un decreto che proibiva l’uso delle viti americane come portinnesti. Dopo oltre un secolo di uso dei portinnesti americani quel divieto fa sorridere e ricorda molto l’atteggiamento attuale fondato sull’ostracismo agli OGM. In effetti si è visto che le nostre varietà innestate sopra le viti americane conservano la loro individualità qualitativa, cosicché il sapore foxy (selvatico) americano non passa nel vino. Dagli innesti di uve aromatiche su viti neutre o non aromatiche e viceversa, si è confermato che l’aroma non passa all’uva, non riesce a superare l’innesto, che rappresenta una barriera invalicabile per molti composti.
La viticoltura conosciuta dal mondo antico, medievale e dell’epoca dei lumi scompariva per sempre ma dalle ceneri della fenice nascevano le Terre lariane nel territorio storicamente vitato e decantato per la sua vocazione a produrre vino.
Allarme per le viti transgeniche, quanto c’è di vero? di Mario Fregoni
Per comprendere l’importanza scientifica dell’argomento, sfrondato dall’empirismo e dall’ipersensibilità emotiva, occorre richiamare che la Vitis vinifera, che si coltiva in tutto il mondo su circa 8 milioni di ettari, deriva dalla Vitis silvestris (selvatica); questa è dioica ossia ha fiori maschili e femminili su piante distinte, mentre le varietà di Vinifera attualmente coltivate sono a fiori aventi sessi uniti nrllo stesso fiore (ermafroditi). Le nostre viti sono pertanto frutto di mutazioni genetiche. Altrettanto si può rammentare che la struttura attuale di 38 cromosomi deriva dalla moltiplicazione di un patrimonio base di 7 cromosomi, a cui si sono aggiunti altri cromosomi, per cui la nostra vite è da considerarsi un poliploide. Le varietà oggi coltivate sono il risultato di incroci spontanei (es. il Cabernet Sauvignon deriva dal Cabernet franc nero x Sauvignon bianco) o di incroci artificiali (es. l’uva da tavola Italia deriva da Bicane x Moscato d’Amburgo). A Piacenza abbiamo incrociato la Barbera e la Bonarda per ottenere un vitigno che darà il Gutturnio con una sola varietà anziché con i due genitori, come avviene attualmente. Gli esempi di incroci sono numerosissimi. Così dicasi per i cloni che noi abbiamo selezionato in tutto il mondo per migliaia di varietà di Vinifera, frutto di mutazioni genetiche naturali od indotte artificialmente. Ad esempio il Pinot nero ha dato origine al Pinot grigio, al Pinot bianco, al Pinot verde. Le mutazioni genetiche dei caratteri morfologici (grossezza del grappolo e dell’acino, ecc.), e dei caratteri qualitativi (zuccheri, aromi, ecc.) sono all’ordine del giorno. Chi scrive ha selezionato e clonato una Malvasia rosa ed una Malvasia grigia provenienti da mutazioni genetiche della Malvasia bianca di Candia aromatica e le due nuove varietà sono ben diverse dalla madre, soprattutto come caratteri qualitativi, migliori secondo i consumatori.
In sostanza possiamo affermare che da millenni in natura si formano OGM di vite sui quali si applica la clonazione come forma di propagazione (ossia la moltiplicazione per talea e per innesto di gemme, prelevate da incroci o da cloni). Il miglioramento qualitativo è stato sempre ottenuto provocando variazioni genetiche ereditarie.
La crisi fillosserica
L’avvento della fillossera (insetto che attacca le radici) ha cambiato la nostra vite, che prima viveva su radici proprie mentre ora possiede radici americane. La vite è bimembre, vale a dire è composta da due individui (uno di Vinifera ed uno di ibridi di viti americane, il portinnesto). Di per sé si tratta già di un OGM. Ma sorvoliamo. Quando sono state individuate le viti americane resistenti alla fillossera vi furono molti avversari alla loro introduzione in Europa per paura che modificassero la qualità del vino. Addirittura la Francia approvò un decreto che proibiva l’uso delle viti americane come portinnesti. Dopo oltre un secolo di uso dei portinnesti americani quel divieto fa sorridere e ricorda molto l’atteggiamento attuale fondato sull’ostracismo agli OGM. In effetti si è visto che le nostre varietà innestate sopra le viti americane conservano la loro individualità qualitativa, cosicché il sapore foxy (selvatico) americano non passa nel vino. Dagli innesti di uve aromatiche su viti neutre o non aromatiche e viceversa, si è confermato che l’aroma non passa all’uva, non riesce a superare l’innesto, che rappresenta una barriera invalicabile per molti composti. Una prima idea da seguire è pertanto quella di predisporre OGM di viti americane resistenti ai parassiti, perché queste rappresentano solo la parte sotterranea (apparato radicale) delle nostre viti bimembri e non danno grappoli e quindi vino. Non dimentichiamo che quando le viti erano franche di piede, cioè non avevano radici americane, duravano oltre un secolo (ve ne sono ancora nel mondo). Oggi le nostre viti durano 20-25 anni!
Si sostiene che le viti transgeniche elimineranno le nostre varietà autoctone e tradizionali (per le quali non si spende gran che per salvarle!). Al contrario facciamo presente l’obiettivo opposto e cioè che è proprio inserendo geni di resistenza e di qualità che si potranno conservare le nostre vecchie varietà di Vitis vinifera , complessivamente deboli ed incapaci di reagire ai parassiti, dopo millenni di coltivazione e di propagazione agamica, cioè non attraverso il seme, che preserva dai virus e fornisce piante più resistenti.
Gianni Staccotti – giornalista gustonomo storico dell’arte di convitare – stanni@tiscalinet.it
01 Gennaio