La Provenza e Van Gogh: l’incontro tra due entità straordinarie
Vincent Van Gogh, il “pazzo”, guardava il sole a picco sui fiori di lavanda, sugli ulivi, sull’erba grigia dei pascoli salati. Stringeva le palpebre nella calura per fermare i raggi violenti e vedeva la luce scomposta in mille colori. Poi prendeva il pennello e fissava sulla tela il “suo” sole di coriandoli colorati.
Colpi secchi, precisi a formare immagini mai viste, eppure così facili da vedere. E in tanti a gridare che quello non poteva essere un sole. Eppure, ho sentito dire, qui tra i prati di lavanda e le colline appena segnate che si muovono sotto i merletti rocciosi delle Alpilles, che “ il n’a rien inventé: il a vu”. Non ha inventato: ha visto.
L’olandese folle e la sua anima mai sazia vagarono su queste campagne per due anni, vissuti con un furore maniacale. Trecento tele dipinte in quel breve periodo, altrettanti disegni: quei soli a coriandoli, quei prati di lavanda, quei carretti di contadini e di zingari destinati a portare la luce della piccola Provenza in tutto il mondo e a consegnarla all’eternità dell’arte.
Luce abbagliante o morbida, sfumata o decisa, tenera o sferzante, si tinge del viola dei campi di lavanda, del verde degli ulivi, del rosa degli alberi da frutto, del giallo del grano. Qui i colori prendono quelle improbabile e inconfondibile sfumatura che solo i grandi maestri come Van Gogh e Cézanne hanno saputo tradurre sulla tela.
E la stessa luce avvolge e illumina, senza discriminazioni, il monumentale palazzo dei Papi di Avignone e i pascoli salati della Camargue.
Strana terra. Si mostra con modestia, mai con violenza, senza aggredire, ma lasciandosi interpretare. Come Aix-en Provence, la minuta capitale di Provenza, trasparente e dolce.
Lo stesso vale per Avignone, un po’ Strasburgo, un po’ Vienna, un po’ Parigi d’altri tempi. Si direbbe una città spensierata, come il suo festival del jazz ma al tempo stesso colta che vuol essere colta, con l’affermato festival del teatro che fa calare qui, a luglio, la créme intellettuale d’Europa.
Poi lungo il Rodano che va verso il mare, lontano la Provenza diventa più rustica e contadina. La piccola Arles, tra il verde, è grandiosa certo, così “intrisa” dell’antica grandezza romana, ma è rimasto un borgo: si direbbe che abbia smesso di crescere con la fine dell’impero.
La Camargue, quel triangolo di terra selvaggia compreso fra i due bracci del Rodano (Petit Rhône e Grand Rhône) e la spiaggia sul Mediterraneo. Qui si allevano i tori camarghesi, con le corna a forma di lira alte sulla testa. Vivono in mandrie controllate dai guardians, i butteri provenzali che montano quei loro cavallini bianchi, dall’aria paciosa ma con un filo di sangue selvaggio. Li intravedi, i butteri disegnati da Van Gogh, lontano nella foschia calda che si alza dallo stagno di Vaccarés, muoversi come ombre tra i fenicotteri che zampettano tra i canneti e gli aironi rosa che volano in cielo.
Van Gogh, dipingeva gli zingari di Les Saintes Maries intorno ai bivacchi delle loro carrozze colorate di rosso, di giallo, di blu, suonare la chitarra, a danzare. Le gitane con i grandi orecchini rotondi, le gonne lunghe a fiori; gli uomini con folti baffi neri, i pantaloni a sbuffo, le giacche scure. Oggi, due volte l’anno, a fine maggio e a fine ottobre, i nomadi si riuniscono qui, come sempre, a festeggiare le loro sante protettrici, Maria Giacoma, Maria Salome e Sara. Oggi sfoggiano lussuose roulotte, pochi i suonatori di chitarra e non bivaccano intorno ai fuochi.
I tempi sono cambiati. Ma se si guarda il sole che splende sopra gli spuntoni arrotondati dal vento delle Alpilles e si chiudono gli occhi, ecco lo stesso sole a coriandoli colorati, tra i campi di lavanda, che aveva visto Van Gogh.
Info: www.france.fr
Testo e foto di Jimmy Pessina