
Vitigni, blasonati e non, chiedono pochi euro ma tante etichette non garantiscono la qualità promessa. Nello Champagne e non solo le promozioni esagerate sono diventate la norma. Per mantenere il mercato molti produttori sono costretti ai salti tripli. In Nuova Zelanda una ricerca choc ha rivelato che il vino sfuso all’ingrosso ormai costa meno dell’acqua minerale: 0,67 centesimi contro 0,78 centesimi al litro. In Italia come documenta la Cia il prodotto sfuso in alcune zone registra un arretramento che costringe gli agricoltori a vendere sottocosto con conseguenti ed evidenti riflessi negativi sui redditi.
Naturalmente è la crisi il principale attore di questa situazione negativa, ma non è il solo.
Come è noto il consumo procapite di vino in Italia diminuisce anno dopo anno. Tra i motivi non solo i prezzi, ma anche esigenze dietetiche ed una cattiva informazione che troppe volte confonde la cultura del vino con l’abuso di alcol. Nessuno può difendere l’abuso, mentre dovremmo moltiplicare gli sforzi per affermare nel nostro Paese la vera cultura del bere bene e del bere giusto. In questo contesto può essere inquadrata l’esigenza di un vino non esageratamente alcolico.
Oggi fa quasi sorridere l’idea che fino ad una decina di anni fa era diffusissima la pratica del taglio per conferire, specie ai vini del nord, un tasso alcometrico accettabile: molte leggende, ma anche molte verità. Non molti sanno che oggi, però, con il costante innalzamento della temperatura terrestre è possibile coltivare la vite in regioni del mondo che fino a pochi anni fa non erano assolutamente adatte per produrre l’uva.
Un esempio su tutti l’Inghilterra che già sta sperimentando sulla sua terra l’impianto di molti ettari di vigna. Ma pochi sanno anche che il maggiore calore e la maggiore insolazione dei vitigni ha aumentato praticamente in tutto il mondo il contenuto di zuccheri nell’uva e di conseguenza il valore alcolico del vino. E questo è un grosso problema. Vini che hanno combattuto sempre con i disciplinare per raggiungere il minimo consentito oggi si trovano a combattere con l’eccessivo carico alcolico.
Difficile per i produttori intervenire in vigna, delicatissimo intervenire in cantina. Gli enologi stanno sperimentando una serie di procedimenti altamente tecnologici per porre rimedio a questi eccessi. La strada della sperimentazione incoraggia la speranza di mantenere il prodotto integro, ma dubbi ed incertezze non mancano. La dealcolizzazione parziale non può e non deve essere un rimedio qualunque. Soprattutto se applicata a grandi vini non può lasciare margini di errore.
Un prodotto non integro e non all’altezza della qualità delle nostre eccellenze immesso frettolosamente sul mercato sarebbe un errore gravissimo. Altra cosa è il discorso del vino non vino, e cioè del vino senza alcol. Stati Uniti, Germania e Giappone rappresentano già mercati maturi per questa bevanda gustosa e dissetante. Un successo che potrebbe doppiare quello della birra analcolica che in Spagna, lo segnalo, ha già raggiunto il 10 per cento del mercato complessivo delle bionde. Anche in questo settore produttivo l’Italia non dovrebbe rimanere indietro, abbiamo tantissima ottima materia prima e imprenditorialità capace di affermare il proprio valore. Inoltre confiniamo con l’immenso mercato del mondo islamico che alla bevanda di vino senza alcol potrebbe rivolgere molta attenzione. Comunque, vorrei rassicurare le bottiglie citate all’inizio del mio articolo: tranquille, nessuno vi torcerà un alcole, a voi vi berremo così come siete e con grande gusto.
Marcello Masi – Vicedirettore RAI Tg2 – marcello.masi@rai.it
01 Dicembre 2010