Con la sentenza n. 9357 depositata il 9 marzo 2020 la Corte Suprema di Cassazione, III sex. Penale, ha messo, definitivamente, una pietra tombale sulla vexata quaestio relativa ai cosiddetti “wine kit”, ovvero confezioni di “prodotti – intruglio” per riprodurre a casa il proprio vino preferito, evocando nomi di grandi vitigni e doc italiane e simbologie del Made in Italy, come monumenti famosi o il tricolore. Una sorta di bricolage del vino, un “fai da te” che fino ad oggi ha consentito a “certe” aziende straniere di agire in danno dei consumatori e del comparto vitivinicolo nazionale, con un fatturato pari, praticamente al doppio del nostro settore agroalimentare: 60 mld di falso contro i 35 dell’originale.
Per comprendere meglio la decisione cui è addivenuta oggi la Corte di Cassazione, occorre ripercorrere brevemente i fatti giudiziari antecedenti.
Tutta la vicenda ha avuto origine dalla denuncia mossa al presidente di una società canadese che commercializzava in tutto il mondo vini ed alcolici riportanti sulla confezione nomi di pregiati vini italiani Dop e simboli che richiamavano l’Italia. Il nodo della questione è nella omessa e non provata certificazione della provenienza del mosto, materia prima alla base delle bevande de qua.
A tal riguardo, giovi ricordare che il nostro ordinamento giuridico prevede, ai sensi e per gli effetti dell’art. 517 c.p., due condotte alternative consistenti nel «porre in vendita» o nel «mettere altrimenti in circolazione» prodotti a scopo ingannatorio integranti il reato di contraffazione. A tanto, si aggiunga anche il dettato dell’art. 4, comma 49, l. n. 350/2003, che, sostanzialmente, definisce reato la diffusione, a fini commerciali, di una bevanda, da comporre ad opera del consumatore, evocativa del gusto di un vino doc italiano, nell’ipotesi in cui il mosto non provenga, diversamente da quanto appare dalla confezione, effettivamente da certificati vitigni italiani.
L’illiceità della condotta consiste nell’inganno del consumatore alla conclusione dell’acquisto sul falso presupposto che il prodotto in questione abbia segni distintivi che ne facciano dedurre la convinzione della provenienza italiana, fatta salva, però, la possibilità di provare la genuina origine del bene commercializzato. Ed, infatti, la prova dell’origine del prodotto non certificato grava solo su chi lo commercializza.
La prima sentenza sul punto fu emessa dal Tribunale di Reggio Emilia a febbraio 2016 che, però, a fronte della domanda di condanna (per associazione a delinquere, concorso in frode e contraffazione) e richiesta di risarcimento danni al comparto vinicolo nazionale per almeno 200 milioni di euro, si espresse con una decisione di assoluzione “perché il fatto non sussiste”.
Detta sentenza fu riformata dalla Corte di Appello penale di Bologna nel successivo processo di appello in cui si costituirono parte civile la Federdoc e Cia-Agricoltori Italiani, con condanna di uno degli imputati per il reato di cui all’art. 517 del codice penale “vendita di prodotti con segni mendaci”, atteso che “i nomi riportati sulle etichette contenute all’interno dei kit, erano perfettamente idonei a trarre in inganno l’acquirente sulla origine e sulla provenienza dei mosti utilizzati per comporre il kit, come quelli di origine territoriale dei vitigni da cui derivano i vini DOP contrassegnati da tali nominativi.”(*)
Oggi, in accoglimento della domanda di illiceità del vino italiano “fai da te”, la Corte Suprema di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello penale di Bologna e statuito definitivamente la sussistenza dell’illecito in capo ai winekit, responsabili di un danno di almeno 200 milioni di euro al settore vinicolo nazionale per violazione del diritto alla trasparenza ed alla tutela del consumatore, ma anche della salvaguardia del vino italiano a livello internazionale.
Grande soddisfazione per la Federdoc che sin dall’inizio ha lottato nelle sedi giudiziarie per la tutela ed i diritti di consumatori, produttori e del vino italiano. “Questa sentenza costituisce un primo traguardo in quanto non sono più in vendita sul mercato internazionale wine kit che utilizzano riferimenti dei nostri vini Dop o Igp. Un risultato – sottolinea Riccardo Ricci Curbastro, presidente di Federdoc – che ci consente di contenere la perdita economica ma anche di contenere il danno di immagine e rafforzare l’attività di tutela nei confronti del consumatore internazionale.”
“Con questa sentenza, la Corte di appello di Bologna ha lanciato un segnale forte di trasparenza alimentare che va nella giusta direzione di tutela degli interessi di produttori e consumatori” – ha rimarcato Dino Scanavino, presidente di Cia-Agricoltori Italiani “Pratiche come quelle del wine kit, se non contrastate nelle sedi opportune, rischiano di danneggiare il sistema delle denominazioni di origine europee che, ormai da circa trent’anni, rappresenta il più importante elemento di distintività e tipicità che caratterizza le nostre produzioni agroalimentari, rendendole uniche nel mondo”.
Un eccellente risultato per tutto il settore vitivinicolo italiano che ci rende fieri delle nostre produzioni, della nostra Legislazione e della sua piena applicazione.
Carmen Guerriero
Infografica © Laura Norese